Irina K.

(Donor No. 34576148-2, TixNeoVek* Inc.)

Ho mani fragili, un grembo di pane.

Conosco il gergo stolto degli inverni

ne ho inscritto il silenzio sulle labbra,

la solitudine di tutte le porte

dove ho costretto l’esilio dei passi.

Qui si sconfina come a terra franca

la satira di un sole, o la sua surroga.

Ignoro chi accolgo, la vita

che mi diedero da crescere.

Mi parla un idioma losco, straniero.

Tento una voce. Le risponde il vuoto.

Tendo la mano. Ne raccolgo cenere.

Sono lo strappo, ripudio d’un dono.

Questo soltanto so offrirti, mentre ora

a me giungi oscuro e limpido. Fiore

ottuso, aporia del nulla.

(*) TioNeoVek: istituto per la maternità surrogata

Minima preghiera

Sia fatta grazia al filo d’erba, all’acqua

che limpida zampilla dalla rupe,

pietà al sonno del baco nella seta,

nel silenzio del solaio clemenza

ai miti scarafaggi della notte,

all’inquietudine dei giorni, al sordo

precipitare del buio alla terra,

s’assolva l’occhio ferino del nibbio

a piombo sull’orma cava del gregge,

sia dato asilo all’ultimo pulviscolo

di polvere strappata a densi cumuli

arsa nel nulla per forgiarne storia.

Perdono all’uomo che cancella l’uomo

cuore di vetro molato d’asfalto

che semina sul vuoto del suo grido,

grazia pietà clemenza asilo

se bandolo di voce appena resta

se cellula residua pulsa ancora.

Van Reymerswaele e il latinorum

 

Se penso alla misura del mio tempo 

arretro alla stagione della scuola, 

ai libri ravvivati dagli inserti 

per fare sopportabile la storia, 

a un quadro d’un maestro impronunciabile 

– o solo una lacuna di memoria – 

fiammingo testimone del progresso, 

a un quadro sotterfugio di mercanti 

tra monete compìti nella conta 

del retto dare-avere calvinista. 

Erede indegna alligna la finanza 

un don Abbondio acrobata del dire 

virtù della moderna stravaganza 

dell’acciuffare banconote d’aria 

senza il conforto d’oro che tintinna. 

 

Se ancora ci ripenso, a dismisura 

rimpiango gli esercizi di grammatica 

delizia per l’infanzia alla graticola, 

il semplice futuro di quegli anni, 

allo smagato labbro l’ottativo 

e l’aura socialista del supino 

ribelle alla sua scorza di passivo, 

il congiuntivo tremulo di fiato, 

la prodigalità del partitivo 

ed a stento si compita il dettato 

d’un tempo scarno di superlativo, 

d’un mondo declinato al genitivo. 

 

Da “Cronache provvisorie” (VJ Edizioni, 2015)

Quel ramo

 

Scruto dalla finestra

come dal più preciso dei cannocchiali

la finestra, identica, della casa di fronte,

i lampioni inclinati, l’asfalto lucido di pioggia,

lo scomposto accostarsi delle zolle

che si perdono nelle fessure della terra,

la calce fresca, la sabbia, i mattoni ammucchiati

un ramo nel coacervo dei rami, quel ramo.

 

E sai che non è ramo quel ramo se non lo nomino

come non è parola la parola che pronuncio

ma è la distonia di ogni altra parola

se non la credi vera.

Per questo non so come affacciarmi sui giorni

stretti in questi nostri tempi di tumulti

nel dirupo dei tempi, tempi gravidi

di labbra di ghiaccio secco

di lingue tappezzate di chiodi

di trachee carbonizzate nella roccia.

 

La scacchiera è sgombra, si richiude sul legno

ma sospetto delle tende, dei vetri appannati,

delle pupille dilatate, della luce volubile.

Altri erano gli spazi su cui sporgersi

con le unghie linde, la saliva impaziente sui denti,

le pietre, gli steli da raccogliere.

Abbasso lenta la tapparella, sugli occhi,

e, con un battito di ciglia superstite, su questa carta

muovo le ultime armate inesistenti.

 

 

Da “Il senso della neve” (puntoacapo, 2016)

 

Il senso della neve

 

L’inverno è l’indugiare del pensiero 

il perdersi nel vuoto delle stanze 

fuggendo l’aria succube nel gelo 

raccogliere le gocce della brina 

stillarne fiato a pelo delle labbra 

e reggere al tranello del già detto 

all’esile lusinga del cantabile: 

donzelletta passero assiolo, questa 

bella d’erbe famiglia e d’animali 

nonna Speranza e ogni caro poetico 

vecchiume di lune e favole belle 

il pio bove, i cipressi del Carducci. 

 

Altro il timbro degno del nostro tempo 

col pollice alle nocche un Vanni Fucci 

che uncina, che flagella, che dà strazio 

Pluto, Minòs ch’avvinghia alla sua coda 

Flegiàs, Semiramìs lussurïosa 

e serve una parola rattrappita 

potata come un pesco di febbraio 

quando sferza le guance tramontana. 

Serve un torsolo minimo di voce 

senza ravvedimenti, mediazione 

stanar l’arpeggio nello sciabordio 

delle stoviglie, frugare le pieghe 

remote della polvere, scoprire 

la chiave del durare in ciò che è breve 

lo spazio dove resta illeso il bianco 

allo svanire certo della neve.