Su Laboratori Poesia la recensione al nuovo libro di Gianmaria Giannetti
Scrivo nella recensione:
“Gianmaria Giannetti ci mette di fronte ad una esperienza di poesia della reticenza, o meglio di poesia dell’indicibile o dell’inesprimibile, per quanto i temi trattati facciano riferimento evidentemente alla sfera più privata e autobiografica. Ogni esperienza personale che viene tradotta in versi è nel suo insieme difficilmente decifrabile, anche e soprattutto per il ricorso ad una forma espressiva ricca di omissioni, di ellissi, di non detto, di frasi sospese o al limite dello sconnesso, tutte espressioni linguistiche che lasciano il lettore costernato e incapace di una ricostruzione univoca del contesto semantico che sta alla base.”
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“Questa non è una poesia che va quindi compresa secondo i consueti strumenti razionali e interpretativi, ma una poesia che va vissuta interiormente secondo schemi assolutamente anticonvenzionali, nel dispregio di ogni luogo comune o di ogni facile ovvietà: percorso ovviamente condivisibile non necessariamente dalla cerchia più ampia dei lettori. Ogni dettaglio consueto, ogni parola, anche le più comuni e le più rassicuranti (come “letto”, “mare”, “mamma”), vengono completamente deformati, plasmati in funzione del ruolo eversivo e sussultorio che l’opera impone. Tutto, allora, diventa denotativo e simbolico al tempo stesso; ogni situazione, ogni riferimento temporale o topografico, ogni menzione di oggetti di uso comune diventa ambiguo e naturalmente polisemico, crea una frattura insanabile rispetto alla linearità del linguaggio e del suo sostrato semantico.”
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Continua su Laboratori Poesia, dove è possibile leggere la recensione integrale e una selezione di poesie tratte dal libro
Immagine della copertina del libro tratta dal sito Laboratori Poesia
L’ultima silloge di Raffaela Fazio, interamente centrata sulle declinazioni possibili del desiderio, è un lavoro ben compatto, architettato con ingegno e precisione in tutte le sue parti, un edificio solido e armonico che riesce in ogni sezione a dare esempio e prova di versatilità nei contenuti e nei piani prospettici, in una sostanziale unità e coerenza di stile. Raffaela Fazio, d’altronde, ci ha abituato a saper costruire con rigore le sue sillogi, come dimostrato anche nei suoi lavori precedenti.
La raccolta si apre con l’intensa sezione “Black-out“, interamente centrata sulla perdita della persona amata, sezione così autentica perché prende le mosse dalle ragioni di un vissuto che tuttavia non snatura la profondità di una parola poetica toccante, capace di un rispecchiamento da parte di tutti per l’universalità del messaggio che è in grado di trasmettere. La parola poetica diventa allora il mezzo necessario per resistere, per preservare oltre il limite che il tempo impone i valori e i sentimenti che sono fondamentali per la nostra esistenza. Raffaela Fazio sa dare tutta una sua personale interpretazione del tema della perdita, giocata su una sobrietà e una lucidità di visione che amplifica il contrasto fra la verità che deve essere accettata e il desiderio che pretende la sua negazione o rimozione. Dice infatti Raffaela Fazio in una delle poesie più riuscite: “ti lascerò lo stesso / farò da sola il mio rito privato / sarà il punto messo dopo il verso / per te non scrivo più, sarà finita // (ma la punteggiatura / come il cuore / segue un altro corso)”.
Ma l’opera non è confinata nella sfera personale; la raccolta, come affermato da Giancarlo Pontiggia nei risvolti di copertina, “ha la consistenza di un quaderno morale“, sa unire allo “scandaglio interiore” (ossia la nostra “Materia oscura” come recita una sezione del libro) anche la consapevolezza di appartenere alla dimensione più vasta del mondo e della storia, prevalenti nelle altre sezioni. Particolarmente riuscite sono le immedesimazioni e le riscritture di tutta una serie di figure che derivano dal mondo della letteratura, del cinema, della storia, del mito (con il dialogo fra Persefone e Proserpina), procedimenti questi ai quali Raffaela Fazio ci ha già abituato nei suoi precedenti lavori, capace com’è di addentrarsi “nel fitto dei rapporti umani” per identificarvi, di volta in volta, “luce che filtra”, “filo abissale”, “materna chiarezza”. A essere messo in rilievo in questa raccolta rispetto alle precedenti è la centralità del motivo del desiderio (“rinati ogni volta / e più per desiderio / che per scelta”), da intendere principalmente come distacco, caduta, come del resto è evidente dalla sua radice etimologica (si veda anche l’illuminante prefazione di Alfredo Rienzi), e Raffaela Fazio sa essere particolarmente attenta alla matrice più profonda di ogni termine che impiega all’interno della sua poesia: sa quanto l’origine, la fonte è presupposto di autenticità.
Il quadro complessivo è dunque multiforme, estremamente variegato nei temi e nelle suggestioni, siano esse letterarie in senso lato o personali, ma tutto viene reso coeso dalla essenzialità e dalla precisione della parola dell’autrice, scarna come non mai, senza però essere arida. Il lettore viene arricchito da questa galleria in versi di esperienze e di personaggi, tutti unici nella loro peculiarità, diventando partecipe, con un processo di crescita interiore che lo porta a interrogarsi In primo luogo su di sé, facendolo quindi protagonista dell’opera. È questa vicinanza che più di tutto cerca Raffaela Fazio per la quale la scrittura, lungi dall’essere esperienza letteraria o confessionale, è soprattutto punto di raccordo con l’altro, dialogo incessante con chi sa ancora riconoscere la sua condizione di uomo o donna, in tutta la sua fragilità dialetticamente vissuta, e che non va nascosta né temuta.
Fotografia della copertina del libro, Fabrizio Bregoli
Per ulteriori informazioni sul libro si invita a consultare il sito dell’editore
È sempre avvincente entrare in contatto con un nuovo autore, in particolar modo quando ad essere oggetto di lettura è un’opera prima. Il lettore si impone allora il compito di identificare quali siano le ragioni profonde della scrittura in oggetto, quali siano i modelli e i referenti formali e stilistici, quale sia la cifra specifica dell’autore rispetto alla produzione letteraria già esistente. L’incontro con la poesia di Silvia Patrizio è avvenuto con assoluta spontaneità e intimità di ascolto, fin dalle prime poesie della raccolta. Abbiamo apprezzato in particolare quella cura nella selezione del linguaggio e nella costruzione dei versi che indicano il bisogno di ridurre tutto all’essenziale, a ciò che davvero conta. In tal senso probabilmente va inteso anche il titolo del libro: “smentire il bianco” significa allora e innanzitutto avere rispetto di quel bianco che si cancella e che si segna con la propria scrittura. Il bianco però viene violato sempre a un prezzo molto alto, un conflitto interiore che impone scelte coerenti e ragionate, quelle che ci sentiamo di ritenere presenti all’interno di questa interessante opera prima.
La scrittura di Silvia Patrizio vive di accenni, gli sguardi laterali sul mondo, di elusioni e allusioni che ne rappresentano la tipicità, la forza e il fascino, che vive di contraddizioni e di asimmetrie sempre presenti. È una poesia ellittica , quella di Silvia Patrizio, senza voler essere oscura: ogni omissione o ambiguità è funzionale alla densità dei contenuti che sarebbero travisati se ridotti a un’unica chiave di lettura. Un particolare pregio va riconosciuto inoltre alla sezione finale dell’opera, in cui avviene la riscrittura di alcune figure del mito e delle eterno femminino, da intendersi come transfert o alter ego dell’autrice, mezzi per rendere l’esperienza soggettiva dell’autrice portatrice di significati più ampi, anche se sempre in forma allusiva e magmatica.
La poesia di Silvia Patrizio, felice nuova scoperta, si contraddistingue per la sua incisività caustica e discreta, elementi apparentemente inconciliabili ma talmente connaturati l’uno all’altro da non lasciare certamente indifferenti in un’autrice in cui la pratica dell’umiltà nella scrittura si combina con una consapevolezza artistica esemplare.
La poesia di Gianfranco Isetta ci è ben nota e particolarmente gradita per la sua capacità di attingere alle ampie possibilità del linguaggio scientifico e della natura, senza però essere vacuamente dotta o esibizionisticamente nozionistica, anzi sempre orientata – com’è suo tipico – a una concretezza espressiva dove l’aspetto filosofico ed esistenziale rimane il più rilevante. Gianfranco Isetta è ben consapevole che il compito principale della poesia è sapersi interrogare sulla vita che, heideggerianamente, trova il proprio significato più profondo nella attesa, pacata e consapevole, del suo destino finale e dimostra nei suoi versi di non temere quella soglia ultima, non per un epicureismo di ritorno o altro materialismo di sorta, quanto per un razionalismo emotivo caratterizzato da un invidiabile equilibrio di stampo oraziano.
Gianfranco Isetta è un poeta capace di creare un colloquio con la dimensione dell’indicibile dove appunto si colloca la cancellazione della nostra esistenza per attrarre da quel potenziale vuoto una densità di significati nuovi che servano a far luce sulla prospettiva più autentica della vita stessa. Non teme di parlare spregiudicatamente con la morte, perché è l’unica possibilità per fruire completamente la vita. “Non lasciano le impronte / i passi sulle foglie, / come il soffio del vento // ma sono qui a parlarne / con molta tenerezza / pensando al mio destino.” Gianfranco Isetta è attento allora alla pregnanza di ogni piccolo dettaglio, anche alla tenerezza e al mistero racchiusi in una foglia, alla gelosia e alla caparbietà dei gatti, ma senza ingenuità o idilli facili, anzi con una profonda consapevolezza della completa aleatorietà del macrocosmo e dell’esistenza nel suo insieme, regolata dalle leggi e dai principi della fisica quantistica e delle particelle (complice in questo anche la sua formazione da statistico e la sua vorace curiosità scientifica).
La misura breve del suo verso, con la naturale predilezione per il settenario in primis, conferisce leggerezza a un lavoro che pur affrontando temi impegnativi non diventa così troppo intellettualistico. Una poesia in cui “l’acerbo dei ricordi” è consapevolmente assunto, ma senza arrendersi, senza rinunciare alla speranza. Al tono tragico, inutilmente enfatico di tanta altra poesia, Isetta preferisce un’elegante ironia, ricca di understatement, “sino alla nudità della parola” (se ” tutto è tollerabile…” per dirla con Saffo).
Un libro da leggere, questo di Isetta, da frequentare nel tempo, per coglierne il fascino discreto, mai plateale, di un autore naturalmente determinato nella sua scrittura senza però doverla mai prevaricare.