
BENEDETTO IL SECOLO
Benedetto il secolo e il giorno e l’anno
l’ora e l’addì prossimo genituro
al continente giovenca che ingravida
un globo che s’ingloba e globalizza
e anestetizza il popolo sovrano.
Laudata in pia compieta madre terra
le stelle, sora guerra e frate vento
campi di nomade concentramento
e centri d’umana disaccoglienza
corsie e barellati di sghimbescio
sbobinate di coscienza a rovescio
giardini piantumati all’età terza
e quarto, di vocazione e di fatto
stato che si sdogana già disfatto
giubba e feluca per l’internauta ci-
-vile, viaggi, miraggi, bile.
Benedetta la firma sul trattato
ceralacca sul corsivo inchiostrato
frontiere spalancate prezzolate
ed esodi ad identici deserti.
Benedetto resistere conserti
al tempo del frattempo ed in procinto
al mondo circoscritto in un recinto.

IL SENSO DELLA NEVE
L’inverno è l’indugiare del pensiero
il perdersi nel vuoto delle stanze
fuggendo l’aria succube nel gelo
raccogliere le gocce della brina
stillarne fiato a pelo delle labbra
e reggere al tranello del già detto
all’esile lusinga del cantabile:
donzelletta passero assiolo, questa
bella d’erbe famiglia e d’animali
nonna Speranza e ogni caro poetico
vecchiume di lune e favole belle
il pio bove, i cipressi del Carducci.

Altro il timbro degno del nostro tempo
col pollice alle nocche un Vanni Fucci
che uncina, che flagella, che dà strazio
Pluto, Minòs ch’avvinghia alla sua coda
Flegiàs, Semiramìs lussurïosa
e serve una parola rattrappita
potata come un pesco di febbraio
quando sferza le guance tramontana.
Serve un torsolo minimo di voce
senza ravvedimenti, mediazione
stanar l’arpeggio nello sciabordio
delle stoviglie, frugare le pieghe
remote della polvere, scoprire
la chiave del durare in ciò che è breve
lo spazio dove resta illeso il bianco
allo svanire certo della neve.


SHOPPING DI NATALE
Milano che t’infrangi tra le volte
dove stillano lacrime di sole
t’affollano le mani, ti rovistano
e rassereni nei palmi distesi
del marmo lucidato del tuo duomo
che sai avvicendarsi alla fuliggine,
respiri con pudore le tue polveri,
scantoni tra le tenebre degli anditi
dove si stendono schiene a cartoni
sulle piastrelle viscide e v’indugiano
gorghi di cellophane, latte di birra
scie di sputi, chiazze di gelati
mozziconi sfiancati ai troppi passi,
compare qualche sguardo dalle sciarpe
per scagliare pugni di dadi, lisca
d’una vita scorticata, quel ghigno
desolato che ne resta: qui scopro
nel midollo paziente del tuo esistere
tra crocchi di marmocchi, torvi zigomi
il guizzo iridescente, integro vivere
poiché poesia non è parola
che s’affranca, ma intorbidarne lingua
braccia sangue, distanza che si varca.

A ROVESCIO
Talvolta accade che un labbro ti sfiori
dal gelo siderale dell’infanzia
e capriola di respiro solletichi
quell’angolo più in ombra del tuo lobo,
ruzzoli sullo scivolo di vertebre
a dirotto nello scavo del cuore

e senti nostalgia del minuscolo
del farsi più piccino, quasi fumo
svanito al suo destino, a quel tempuscolo
minuta evanescente sulla pagina
e strizzi gli occhi come nel risveglio
dall’incantesimo di un nascondino
dove chi vince è chi
sa più disperdersi, rendersi minimo
rimpicciolire al gioco degli specchi
smagrire anni, retrogradare il passo
affusolarsi come in dissolvenza,
a fuoco sul rovescio d’un binocolo.

LA NENIA DEL DIAVOLO
Hai spento la luce: è tardi ora

e ancora riaffiora il buio che non è mai
tenebra per le ombre che si ricompongono,
e il sonno arranca nelle gole d’abisso,
nei dirupi d’un letto sempre uguale
che non accoglie, d’uno slancio franto
che non solleva, crollano le tue pareti
ferite, le tue forze si piegano al vento
che flagella ora acuminato ora avvilente; ora

e ancora addolora il vuoto che mai
prende corpo peso, identico a se stesso,
incolore più del saluto d’uno sconosciuto
e le membra s’avvitano, non trovano
spazio, come t’aggrappassi ad una fune
d’aria, come camminassi su terra
soffocata, in questo vuoto che scava,
che scova ora spietato ora distratto; ora

e ancora rincuora quasi, il perpetuarsi
di questo cerchio di dolore che leggi
sul volto di tutti e di nessuno, il ripetersi
perenne d’un vuoto che non sorprende,
che hai conosciuto e vissuto, stupefatto
in spirali d’assenza: nel silenzio diventa
tuo compagno, non te ne puoi più separare,
precipiti in una falda profonda, t’incagli
in indifferenza ora voluta ora subita; ora

e ancora ti sfiora appena questa mano
tuo malgrado presente e ti arrendi al tempo:
è tardi ormai. Prendi sonno. Ora.