Da “Il senso della neve” (puntoacapo, 2016)

BENEDETTO IL SECOLO

Benedetto il secolo e il giorno e l’anno

l’ora e l’addì prossimo genituro

al continente giovenca che ingravida

un globo che s’ingloba e globalizza

e anestetizza il popolo sovrano.

Laudata in pia compieta madre terra

le stelle, sora guerra e frate vento

campi di nomade concentramento

e centri d’umana disaccoglienza

corsie e barellati di sghimbescio

sbobinate di coscienza a rovescio

giardini piantumati all’età terza

e quarto, di vocazione e di fatto

stato che si sdogana già disfatto

giubba e feluca per l’internauta ci-

-vile, viaggi, miraggi, bile.        

                    

Benedetta la firma sul trattato

ceralacca sul corsivo inchiostrato

frontiere spalancate prezzolate

ed esodi ad identici deserti.

Benedetto resistere conserti

al tempo del frattempo ed in procinto

al mondo circoscritto in un recinto.

IL SENSO DELLA NEVE

L’inverno è l’indugiare del pensiero

il perdersi nel vuoto delle stanze

fuggendo l’aria succube nel gelo

raccogliere le gocce della brina

stillarne fiato a pelo delle labbra

e reggere al tranello del già detto

all’esile lusinga del cantabile:

donzelletta passero assiolo, questa

bella d’erbe famiglia e d’animali

nonna Speranza e ogni caro poetico

vecchiume di lune e favole belle

il pio bove, i cipressi del Carducci.

Altro il timbro degno del nostro tempo

col pollice alle nocche un Vanni Fucci

che uncina, che flagella, che dà strazio

Pluto, Minòs ch’avvinghia alla sua coda

Flegiàs, Semiramìs lussurïosa    

e serve una parola rattrappita

potata come un pesco di febbraio

quando sferza le guance tramontana.

Serve un torsolo minimo di voce

senza ravvedimenti, mediazione

stanar l’arpeggio nello sciabordio

delle stoviglie, frugare le pieghe

remote della polvere, scoprire

la chiave del durare in ciò che è breve

lo spazio dove resta illeso il bianco

allo svanire certo della neve.

SHOPPING DI NATALE

Milano che t’infrangi tra le volte

dove stillano lacrime di sole

t’affollano le mani, ti rovistano

e rassereni nei palmi distesi

del marmo lucidato del tuo duomo

che sai avvicendarsi alla fuliggine,

respiri con pudore le tue polveri,

scantoni tra le tenebre degli anditi

dove si stendono schiene a cartoni 

sulle piastrelle viscide e v’indugiano

gorghi di cellophane, latte di birra

scie di sputi, chiazze di gelati

mozziconi sfiancati ai troppi passi,

compare qualche sguardo dalle sciarpe

per scagliare pugni di dadi, lisca

d’una vita scorticata, quel ghigno

desolato che ne resta: qui scopro

nel midollo paziente del tuo esistere

tra crocchi di marmocchi, torvi zigomi

il guizzo iridescente, integro vivere

poiché poesia non è parola

che s’affranca, ma intorbidarne lingua

braccia sangue, distanza che si varca.

A ROVESCIO

Talvolta accade che un labbro ti sfiori

dal gelo siderale dell’infanzia

e capriola di respiro solletichi

quell’angolo più in ombra del tuo lobo,

ruzzoli sullo scivolo di vertebre

a dirotto nello scavo del cuore

e senti nostalgia del minuscolo

del farsi più piccino, quasi fumo

svanito al suo destino, a quel tempuscolo

minuta evanescente sulla pagina

e strizzi gli occhi come nel risveglio

dall’incantesimo di un nascondino

dove chi vince è chi

sa più disperdersi, rendersi minimo

rimpicciolire al gioco degli specchi

smagrire anni, retrogradare il passo

affusolarsi come in dissolvenza,

a fuoco sul rovescio d’un binocolo.

LA NENIA DEL DIAVOLO

Hai spento la luce: è tardi ora

e ancora riaffiora il buio che non è mai

tenebra per le ombre che si ricompongono,

e il sonno arranca nelle gole d’abisso,

nei dirupi d’un letto sempre uguale

che non accoglie, d’uno slancio franto

che non solleva, crollano le tue pareti

ferite, le tue forze si piegano al vento

che flagella ora acuminato ora avvilente; ora

e ancora addolora il vuoto che mai

prende corpo peso, identico a se stesso,

incolore più del saluto d’uno sconosciuto

e le membra s’avvitano, non trovano

spazio, come t’aggrappassi ad una fune

d’aria, come camminassi su terra

soffocata, in questo vuoto che scava,

che scova ora spietato ora distratto; ora

e ancora rincuora quasi, il perpetuarsi

di questo cerchio di dolore che leggi

sul volto di tutti e di nessuno, il ripetersi

perenne d’un vuoto che non sorprende,

che hai conosciuto e vissuto, stupefatto

in spirali d’assenza: nel silenzio diventa

tuo compagno, non te ne puoi più separare,

precipiti in una falda profonda, t’incagli

in indifferenza ora voluta ora subita; ora

e ancora ti sfiora appena questa mano

tuo malgrado presente e ti arrendi al tempo:

è tardi ormai. Prendi sonno. Ora.