
AVVERTENZE PER L’USO
Ti scrivo da un’assenza d’anni
da una lacca di nebbie, a fiato corto.
Da quest’arso ammarato relitto
nulla sembra mutare, il tempo sosta
tra consuetudine di luoghi, piogge
nascite ovvie, rare calamità.
Brandisco aria, trascorro ore a sommare
parole inutili a inutile vento.

Fibra a fibra, avvivo vene di vetro
alle guance avvizzite di chi resta
e scioglie ghiaccio rappreso alle palpebre
ne fa limpido specchio a chi verrà.
Questo ti lascio, un imbuto di giorni
levigato ad un’acqua di memorie:
stillane l’ultimo nettare, o cenere
una macchia disperata d’inchiostro.

MAZINGA E L’UOMO RAGNO
(D’un carnevale antico, e nuovo)

Passare la domenica allo specchio,
estrarre la sequenza delle rughe
per farne perno, fingersi più vecchio,
rimpiangere il passato fra le fughe
delle piastrelle sorde ad ogni passo.
Così si sfoglia l’album di famiglia
convinti che ci possa dar la sveglia
con rapidi rintocchi di memoria,
rivedi poi la maschera di Zorro,
lo scudo di Mazinga, l’uomo ragno
gettare la sua tela in bianco e nero
sul volto imbalsamato di chi resta
e in controluce sai, si fa straniero.

E’ vita trattenuta sulle labbra,
riavvolta sulla spola il lunedì
nella promessa nuova del mattino,
resistere alle code in tangenziale,
fuggire il cannocchiale del vicino,
indovinare il titolo al giornale
espedienti tutti, e ali di fortuna,
sopravvivenza spiccia, da manuale.
Il cellulare piatto sotto petto,
la giacca abbottonata, la cravatta
fanno scordar l’azzurro del costume,
la chiazza di colore, dozzinale.
E’ tempo d’oggi, d’attizzare il lume
del quotidiano giogo al carnevale.

PULIZIE DI PASQUA
Così s’afferra al volo quello straccio
e lo si strizza bene nel catino,
si tiene stretto un manico di scopa,
muovendo mani e fianchi in consonanza,
reinventando il lindo canovaccio
di spazzole secchiello lavandino,
si libera la stanza dall’impaccio
degli altri che sarebbero di troppo,
lo spazio giusto alla tua solitudine
giustificata ad arte, in prepotenza
perché ora nulla resti in eccedenza
fuorché lo scivolare di pantofole
sul lucido lavoro del tuo gomito.
Scopri come sia per niente insolito
stringersi alle pareti, alla tua casa,
la stanza plasmi il senso delle cose,
quella forma che sa riempire il vuoto
lasciato dal contorno della polvere,
quel vago sentimento dell’esistere.

STORIE DI PIANURA
Restano i nomi, pronunciati per abitudine
distrattamente, obliqui serbano gli echi dei luoghi,
i riverberi – tre cantoni, feniletto di sotto,
il mulino del conte, la vecchia filanda, la seriola –
o neppure restano per i cascinali rossi
diroccati, nell’alternarsi di muschio e gramigna.
Qualche racconto tramandano i vecchi
sottovoce; se verità o mito
più nessuno sa dirlo:
Zaira verde bendata, passo di riccio,
la più abile a domare le mosche con le mani
o Pietro, pelle tabacco arsa dal sole,
smorfie di sorriso come carezze di vanga
o Diletta immobile nella sua sedia di giunco
o Demetra la bigotta, Nando il pazzo, Vittorio
e lei – per chi sa – nata quella notte, vissuta
nello spazio fra i primi vagiti e il silenzio,
battesimo consumato su occhi di madre, soltanto.
Sono le ferite della terra, appena più profonde
nel reticolo fessurale, nel duro delle zolle.
Le diresti durare, per un’ora più lunga di sole,
le leviga poi un breve scroscio di pioggia.
Sono le storie catturate nei cerchi dei tigli
che le annodano ai tronchi, in riva ai fossi
per preservarle forse…
e mentre sfiorata dal plettro del tempo
più alta ne avvampa la voce
non ho che labbra di sabbia
mani di paglia.

VAN REYMERSWAELE E IL LATINORUM
Se penso alla misura del mio tempo
arretro alla stagione della scuola,
ai libri ravvivati dagli inserti
per fare sopportabile la storia,
a un quadro d’un maestro impronunciabile
– o solo una lacuna di memoria –
fiammingo testimone del progresso,
a un quadro sotterfugio di mercanti
tra monete compìti nella conta
del retto dare-avere calvinista.

Erede indegna alligna la finanza
un don Abbondio acrobata del dire
virtù della moderna stravaganza
dell’acciuffare banconote d’aria
senza il conforto d’oro che tintinna.
Se ancora ci ripenso, a dismisura
rimpiango gli esercizi di grammatica
delizia per l’infanzia alla graticola,
il semplice futuro di quegli anni,
allo smagato labbro l’ottativo
e l’aura socialista del supino
ribelle alla sua scorza di passivo,
il congiuntivo tremulo di fiato,
la prodigalità del partitivo
ed a stento si compita il dettato
d’un tempo scarno di superlativo,
d’un mondo declinato al genitivo.

UN ALTRO MATTINO
Si raccoglie nel nido delle mani
si difende dall’impudenza di passi
dall’ovvietà di tragitti, dall’uggiolio
di freni che addentano rotaie.

Visi affondano occhi nei giornali
s’assolvono nello scudo delle spalle
respirano per abitudine, per rassegnazione.
Sono le nuove tavole della legge
irreprensibili, scolpite sul monte
dei pegni, dei facili pentimenti,
delle conversioni estorte sulle ceneri
d’un rovo combusto, morente.
E nessun altrove
mai.

Sono fuscelli impastati di fango
inermi fili di paglia le dita.
Così si stinge un altro mattino
implume alle rapacità del giorno,
balbettio su opacità di labbra.
