Vorrei che fosse neve questo varco,
un bianco irreprensibile
e fiori che lambiscono la sera.
Porto valige leggere, dicevi
socchiudo piano la porta, ne salvo
uno spiraglio inatteso di luce,
quelle suole di vento.
Parlo l’azzurro dello strappo, veglio
il cerchio dove pregano le mani
la voce che si svena.
Resto così, sospesa in questo crisma
di silenzio. Passi che vi smarriscono
in un fiato, l’orma che annera le unghie.
*

Ti ricordi di loro per sconnesse
associazioni, derive del cuore.
Come di una bandana a fiori mentre
prepari la tavola, o d’un anello
a forma di serpente mentre annaffi
il giardino o nel primo dormiveglia.
O ancora d’una gita in pedalò
non sai quando, e la luce acida. Finta.
Qualcuno che fa segni dalla riva.
Li sai diseredati simboli, atomi
di una materia opaca. Nulla di nobile
– viviamo forse delle nostre perdite –
nulla di utile o appena comprensibile.
Ma comunque scriverne.
Arte del dimenticare.

NOTIZIE DA PATMOS
Comincia tutto ripetendo un nome
da un buio prossimo, colpo di coda
di qualche creatura d’abisso. Dopo
è la stagione del balbettio – certe
muschiose lallazioni – infine frasi
fatte, proverbi storpiati, eserghi
o falsi. Rovine che non sorreggono.
Comprendi davvero d’essere lingua
quando il futuro diventa ipoteca,
passato da riscrivere, scandire
polso a polso la ruggine dei chiodi.
La poesia non cambia nulla
è il nulla che la cambia. La fa possibile.

Traduzioni del prof. Masud Uzzaman, Università di Dacca