Ottantatreesimo appuntamento con la rubrica “Poesia a confronto” sul blog “Laboratori Poesia“.
Il tema affrontato oggi è Cavalli con il confronto fra poesie di Virgilio, Pascoli, Bertolucci, De Libero.
Continuiamo il nostro viaggio nella poesia che ha come protagonista il mondo animale, riservando la nostra attenzione in questo confronto a un mammifero affascinante, compagno dell’uomo nel corso di tutta la sua storia: il cavallo.
Fra i cavalli più celebri è impossibile non annoverare il cavallo di Troia, l’enorme cavallo di legno pensato da Ulisse come stratagemma per conquistare con l’inganno la città di Troia. L’episodio del cavallo, atto conclusivo della guerra fra Achei e Troiani, trova spazio nel canto II dell’Eneide, per voce di Virgilio / Enea. Qui ne proponiamo la versione cinquecentesca di Annibale Caro, una traduzione importante ispirata allo stile del suo tempo, con una costruzione in endecasillabi perfetti, ma capace ancora oggi, con la incisività dei dettagli messi in evidenza, di un sicuro effetto quanto a espressività (si vedano alcuni elementi come “cieco ventre”, “lito ermo e deserto” e la scena della sconsiderata gioia a cui cedono i Troiani ignari della beffa).
Altro testo celeberrimo è “La cavalla storna” di Pascoli, in cui l’autore rivive, come in molte altre poesie, il dramma del padre assassinato, del “nido” familiare infranto. La composizione è tutta articolata in distici di endecasillabi a rima baciata che le conferiscono un ritmo deciso e incalzante; interessanti le variazioni dialogiche che contribuiscono a un andamento drammatico, teatrale nell’intento. Il testo, ricco di riferimenti alla classicità, punta tutto sulla umanizzazione della cavalla che ha vissuto tutta la tragedia del delitto (“Tu tenesti nel cuore il tuo spavento”, “con dentro gli occhi il fuoco delle vampe”) e, pur essendo incapace di parlare, sa tuttavia riconoscere il male commesso, tanto da svelare con un nitrito di assenso la vera identità dell’assassino, vero coup de théâtre finale.
GIOVANNI PASCOLI
(Da “Canti di Castelvecchio”, Zanichelli, 1903)
LA CAVALLA STORNA
Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dài retta alla sua piccola mano.
Tu ch’hai nel cuore la marina brulla,
tu dài retta alla sua voce fanciulla”.
La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.
O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia…”
La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole”.
Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera
“O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
A me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona… Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una, una cosa!
Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.
Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome… Sonò alto un nitrito.
*****
Continua sul blog “Laboratori Poesia“:

L’appuntamento con “Poesia a confronto” è a martedì prossimo.
Per consultare l’elenco di tutte le uscite del martedì della rubrica Poesia a confronto accedere al link.