Marco G. Maggi, autore che conosciamo da tempo, si cimenta in questo suo lavoro in una nuova impresa: il poemetto. Affrontare la misura più estesa del poemetto, articolando la scrittura in un’unica struttura coesa che raggiunge qualche centinaio di versi, non è certo impresa semplice: presuppone una continuità e un’applicazione nella scrittura che vanno aldilà della ispirazione del momento, ma presuppongono una progettualità di fondo, un’idea costante come riferimento. A Marco Maggi l’impresa riesce in modo credibile perché vi concentra tutta la sua tensione etica, ossia tutto il suo patrimonio di ideali, di valori, di esperienze, ancora prima e prioritariamente rispetto alla “strumentazione tecnica” di cui un autore necessita in questi casi. Ne nasce un poemetto che sa coinvolgere il lettore, dal tono colloquiale e a tratti narrativo, lucidamente argomentativo per la preminenza che si dà alla riflessione esistenziale, non senza però interessanti accensioni metaforiche, che vivificano la materia, accendono scarti semantici che evitano che il discorso risulti concettoso.
Consapevole del proprio stato di “recluta della vita”, di orfanità tragica in un “tempo glabro e sterminato” (come si dice nell’incipit), l’autore si confronta con tutte le problematiche essenziali della società contemporanea, analizzando criticamente – ma come deve la forma poetica – le disillusioni di chi, ormai uomo maturo, vede franate tutte le ambizioni e le aspirazioni più nobili degli anni giovanili, ora diventate “le idee tradite dalla finanza dei pochi”. Non mancano nel lavoro anche interessanti riferimenti alla situazione critica, di sfruttamento insensato, a cui è soggetto il nostro pianeta da parte dell’uomo, il tutto senza ecologismo di maniera, ma con sincera adesione a quel filone della “ecopoetry” poco praticato in Italia ma molto diffuso oltre-oceano, soprattutto. Il tono prevalente è amaro, ma l’autore riesce sempre a evitare di essere patetico, grazie a un linguaggio sobrio e senza cedimenti: la strada che ci viene prospettata è la riappropriazione del “valore del poco”, del semplice, contrapposto al superfluo della società delle merci e dell’immagine.
Come sostiene Ivan Fedeli nella prefazione al lavoro, il rimedio che Maggi propone al lettore è il ripiegamento nell’interiorità, non però come solipsismo fine a se stesso, ma come scavo per recuperare autenticità e “lentezza” (ecco ritornare l’elemento del tempo e della durata), come la indica Ivan Fedeli. Solo così si può credere di “allontanare la morte”, “esorcizzare la notte”, come si dice nella chiusa.
I maestri, che giustamente Marco Maggi non esita a indicare, e in alcuni casi a citare, vanno da Rimbaud a Eliot, da Williams a Houellebecq, da Ashbery a Handke: soprattutto Handke, a nostro giudizio, da cui Maggi riprende la lezione del “Canto alla durata” mutuando l’impostazione del poemetto che alterna a elementi descrittivi, narrativi e memoriali, contributi più riflessivi e argomentativi, in cui la poesia non teme di farsi esplicita, veicolare insegnamenti e “educare”. Questa variatio dà movimento e forza al poemetto rendendolo multicentrico e godibile nella lettura.
Un libro che consigliamo di leggere, soprattutto alle giovani generazioni.
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Per leggere le recensioni ad altri libri: Recensioni a cura di Fabrizio Bregoli
Bellissima la chiusa del testo di Marco segnalato da Gabriele .E’ sempre un piacere leggere le tue recensioni Fabrizio.
Grazie Vincenzo, contento della tua lettura e del confronto. Gabriele ha scelto certamente versi fra i più significativi del poemetto. Complimenti anche a lui.