Occorre coraggio nel fare poesia: scardinare le convenzioni, osare, correre il rischio di sovvertire lo schema definito, portare il linguaggio fino alla soglia della sua negazione, in una sorta di blasfemia consapevole e necessaria perché possa rimettersi in gioco, ricostituirsi per una dizione nuova, inattesa. Per rendere credibile questo sabotaggio serve allora la scuola dell’ironia, pronta immediatamente a virare nella parodia o nella satira, ma con quella coscienza matura che la parola è su una corsia obbligata dalla quale diventa impraticabile l’inversione a U che la riconduca alla piatta normatività: il bivio è stato imboccato, la sacralità del tempio viene incrinata per ritornare alla verifica delle sue fondamenta, per capire se la struttura ha ancora basi solide, se l’impianto tiene.
Questo lavoro di Davide Cortese si colloca in questa prospettiva erosiva, proponendo un poemetto in versi in cui si procede a un racconto per negazione in una sorta di contrappasso della vulgata, della narrazione canonica: protagonista è il demone bambino, indicato con quell’abbreviativo e vezzeggiativo insieme che lo porta a rimare con il suo inevitabile antagonista (Zebù/Gesù), nel ritratto di un’infanzia surreale che riprende la tradizione di parte dei vangeli apocrifi, sovvertendola e trasformando tutto ciò che là era presagio di una missione salvifica che avveniva in nuce, nella certezza, qui, di una naturale predisposizione al sovvertimento di quella missione, anche se ancora nella forma ingenua (e pura verrebbe da dire) con cui un bambino può esercitarlo. Zebù prende allora la forma del monello irriverente, già seminatore di discordia e demone incendiario, ma quasi assolto dalle circostanze attenuanti perché in definitiva destinato a svolgere quel ruolo, anzi spinto a eseguirlo dalla natura stessa del suo rapporto con l’uomo: ““L’ho imparato dagli uomini” / ogni santa volta dice” (pag. 20). Avviene quindi, paradossalmente, una identificazione mimetica del lettore che diventa solidale, ancorché con la sospensione provvisoria di ogni metro di giudizio etico e giuridicamente razionale, con questa figurazione moderna di un diavolo bambino, lui pure afflitto da quella solitudine che è propria di ciascuno, tanto da starsene talvolta in disparte “ginocchia sotto il mento / in cima ad un pensiero / battuto dal vento” (pag. 23), ma alla fine capace di affascinare il suo stesso avversario e fare “breccia / nel cuore di Gesù” (pag. 25).
Siamo tutti “volti” che “si specchiano / nelle ginocchia sbucciate / del demone bambino” (pag. 5) in definitiva; e Davide Cortese ci ricorda che è inevitabile il confronto con il proprio lato oscuro, bisogna farci i conti, “accendere la luce per vedere il buio pesto” (pag. 19), senza inutili drammi, ma accettando di buon grado, con ironia raggelata, la lezione inevitabile della vita.

Per l’acquisto del libro sul sito dell’editore: