Colpisce leggendo questa ultima raccolta di Stefano Taccone la scelta di una strada assolutamente personale, proiettata a capofitto nel solco della poesia post-novecentesca, come bene evidenziato da Gino Rago nella sua prefazione all’opera.
Stefano Taccone rinuncia al registro lirico e, a maggior ragione, a quello tragico, entrambi sempre meno adatti a ritrarre la realtà che ci circonda, e sceglie una poesia materica che si immerge a piene mani nei problemi e nelle contraddizioni della contemporaneità, iscrivendosi così in una forma nuova di poesia sociale (o civile in senso lato) in cui il veicolo ideale per mettere alla berlina contraddizioni, idiosincrasie, paranoie della civiltà contemporanea – neoliberista, consumista e dipendente da Internet e social network – è un linguaggio che punta sulla ironia e sul sarcasmo, con punte anche nel grottesco: la poesia rinuncia alla sua assolutezza algida e distaccata per “sporcarsi le mani” con tutto quanto è, appunto, terrestre, imperfetto per natura, spesso paradossale senza volerlo. La scelta formale – su cui bene insiste Letizia Leone nella sua nota in postfazione – insiste allora sull’uso di paranomasie estreme, rime e assonanze insolite e stranianti, calembour, forti inserzioni di “slang” giovanile o comunque della comunicazione informale quotidiana: tutto questo per dare un affresco a vivo del contemporaneo, indagarlo e sabotarlo dall’interno, portandolo sul banco degli imputati per assumersi le proprie responsabilità (quelle sì sconcertanti, spesso tragiche).
Gli uomini ne emergono nella loro completa nudità e inadeguatezza di “primati / senza alcun primato” (tra virgolette citiamo dall’opera), afflitti da una “malattia socializzata” sempre più invadente e difficile da scalzare, “animale social” come evoluzione degradata dell’aristotelico “animale sociale”: la forma poetica centrata soprattutto su versi brevi o brevissimi, raramente oltre la misura del novenario, e frequentemente rimati o in assonanza o consonanza fra di loro, contribuiscono a dare un ritmo incalzante quasi da canzonetta straniata e straniante, un incubo a occhi aperti a cui si sommano numerose divagazioni oniriche (e ironiche insieme) presenti nei testi ai quali non manca una considerevole dose di fantasia e irriverente creatività.
Se è vero, allora, che siamo terrestri forse solo per adozione, frutto di qualche inspiegabile innesto da parte di una specie aliena – azzarda Taccone – c’è per lo meno da sperare che si possa, anche grazie al merito di questi versi, riscoprirsi finalmente umani, come si è, come si dovrebbe essere: non per adozione, ma per sincera vocazione, per costituzione naturale.
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