
Leggere ogni nuovo libro di Ivan Fedeli significa farsi guidare da uno sguardo attento sul mondo, sgravare gli occhi dal peso che ci limita lo sguardo, la barriera che ci impedisce di fissare oltre la linea dell’orizzonte la vita che ci appartiene. Anche in questo libro Ivan Fedeli sa restituirci alla nostra dimensione di uomini, al valore delle piccole cose, degli eventi minimi e apparentemente ordinari che costellano le vite di ciascuno di noi (“capisci del mondo e intendi che sono / in fondo le cose piccole a farlo / girare, i dettagli a renderci vivi”), focalizzando questa volta la sua (e nostra) attenzione sul tema dell’infanzia, quegli anni lontani della nostra esistenza dove tutto accade in modo più spontaneo, sincero, ma dai quali “si cresce a strappi a volte / e troppo in fretta forse”. E ci conduce in questo viaggio con quella limpidezza di contenuti e di stile a cui ci ha abituato, con il suo endecasillabo narrativo e lirico insieme, dagli enjambement forti e circostanziati, dalla colloquialità dimessa che sa bene nascondere il rigore di una ricerca e di una precisione della parola, quelle che ha esercitato e fatto evolvere con coerenza e sempre maggiore perizia di opera in opera. La tensione e la concentrazione della sua dizione poetica si mantengono alte lungo tutto il percorso del libro: assistiamo certamente a un recupero memoriale che molto deve all’esperienza privata dell’autore (che non manca di offrire ritratti sempre molto vivi e coinvolgenti dei compagni, piccoli come lui o adulti, che hanno animato quegli anni: ritratti che sono un suo marchio di fabbrica distintivo) ma il merito, ben noto da tempo, di Ivan Fedeli sta nella sua capacità di rendere l’immedesimazione del lettore credibile, trasformare queste storie personali in “exempla”, mai retorici, che sono in definitiva specchi in cui è possibile per il lettore riconoscersi, leggere anche le sue, di storie, perché ciò che conta davvero nella vita, in definitiva, è comune a tutti. Detto con le parole di Mauro Ferrari, le poesie di Fedeli “attingono allo stesso serbatoio umano che tutti condividiamo”. […]
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