Donatella Nardin ci propone un progetto ambizioso di silloge poetica bilingue, in italiano e in inglese, con la traduzione a cura di Ivano Mugnaini: progetto che nasce senz’altro con l’intenzione di ampliare il pubblico potenziale destinatario dell’opera anche oltre la ristrettezza dei nostri confini nazionali. Il ricorso alla versione in una lingua diversa da quella originale contribuisce a ridefinire ogni singola composizione in una nuova luce grazie al lavoro pregevole e attento svolto dallo stesso Mugnaini secondo la prospettiva propria di una poesia del dialogo fra i due autori. La rilevanza assegnata alla traduzione emerge anche simbolicamente dalla presenza della stessa ad anticipare la versione in lingua, per istituire – intuiamo – un rapporto di parità tra le due.
La poesia di Donatella Nardin si conferma essenzialmente di matrice lirica, ossia una poesia dell’io che esplora in profondità le ragioni dell’esistenza, senza però chiusura ermetica in sé, ma con la consapevolezza di un necessario rapporto con il mondo, con la natura in particolare che diventa pietra di confronto, per analogia o per contrasto, con i moti interiori che animano il materiale poetico. Dell’importanza della dimensione temporale disquisisce diffusamente nella sua postfazione, precisa ed acuta, Riccardo Deiana, il quale correttamente evidenzia la pregnanza del recupero memoriale come elemento essenziale della riflessione poetica, della disamina della realtà nel conflitto fra risultati e attese, azioni e intenzioni, riscontri oggettivi e aspirazioni ideali. La voce dell’autrice, sempre limpida e determinata, si confronta con se stessa in un rapporto continuo con il mondo e con l’altro, prendendo le mosse dall’esperienza personale, in primis dall’infanzia identificata come terreno fertile di sollecitazioni e di aspirazioni che continuano a rimanere fondamentali nello sviluppo fondamentale della personalità di ciascuno: “Tornare a dire. Mai dimenticare / l’amaro veleno che ha spellato / le mani e le tenere piume”. Il contrasto fra ciò che è stato e ciò che sarebbe potuto essere instaura quel tono elegiaco, a tratti anche disilluso e tragico, che permea la raccolta senza mai cadere, però, in un pessimismo cieco e senza via d’uscita. Il costante rapporto con il macrocosmo naturale diventa allora possibile via d’uscita o di scampo dal solipsismo e da un’inquietudine insanabile, fratture profonde che la poesia esponendo senza diaframmi cerca, seppure imperfettamente, di compensare e di mitigare. L’elemento interessante della raccolta sta proprio in in questa complessa ricerca di equilibrio che si traduce nel frequente ricorso a un linguaggio che gioca sulle antitesi, sull’ ossimoro, sul contrasto come elementi di verità poetica da afferrare “prima che il verde esca dagli occhi / come le vite care divenute / allo sguardo pura nostalgia”.

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