Il tema del tempo, del suo inesorabile trascorrere e del suo trascinare e consumare tutto con sé, alterando e annullando le vite, è uno dei motivi principi della riflessione ontologica sul senso dell’esistenza, sulla nostra natura e sul nostro destino di uomini, di individui singolari che si confrontano con la complessità del mondo, secondo ragioni e finalità che risultano impossibili da circostanziare pienamente: in sostanza enunciati indecidibili.
Raffaele Floris conduce nei suoi versi una riflessione misurata, a tratti malinconica, sulla “macchina del tempo” in cui si intrecciano indissolubilmente fatti e intenzioni, accadimenti e memoria, con quel suo linguaggio fermo e insieme pacato al quale ci ha abituato in tutti i suoi lavori, con coerenza, con indiscutibile riconoscibilità, oltre che dello stile, della sua idea poetica e culturale nella sua accezione più larga. Con i piedi ben piantati nella tradizione poetica, appresa con la frequentazione attenta e sensibile dei maestri, soprattutto novecenteschi, Floris ci offre un’opera in cui la lingua proposta, funzionale ai temi esistenziali che vi si affrontano, è sorvegliata e centellinata in ogni singola declinazione fonica e semantica, tutto centrato su una koinè di fondo in cui la misura, l’equilibrio si impongono naturalmente, per costituzione, senza nessun artificio o forzatura. Questa pervasiva “leggerezza” dello stile, anche quando la materia di cui si tratta è in realtà viva e incandescente, come per certi temi sociali, contribuisce alla lucidità dell’argomentazione, a una prevalenza del contenuto esistenziale per il quale la forma, curatissima, diventa strumento di chiarezza, di esposizione disincantata, mediata dalla lingua per elevare il senso, renderlo tangibile.
Il libro è strutturato secondo un’architettura rigorosa in cui a gruppi di tre poesie (trittici che vedono unità a livello contenutistico), composte da tre quartine in endecasillabi sciolti o a rima alternata, si alterna una poesia a strofa singola di lunghezza variabile, sempre in endecasillabi sciolti, la quale si riferisce a precise situazioni storiche e sociali, in cui si testimonia l’ingiustizia e la crudeltà della comunità degli uomini irrispettosa della sua stessa dignità (“non c’è scampo / a quello strazio assurdo, a quel dolore”), del valore di ogni singolo individuo. La trama geometrica della raccolta (15 gruppi di 4 composizioni, terminate da un trittico finale) vuole così restituire un ordine in cui il lettore possa orientarsi, stante invece la natura di per sé caotica e contraddittoria dell’esistenza, di tutti e di ciascuno, dove “la macchina del tempo / è solo un trucco”. La poesia è allora la leva che operando sul fulcro vivo dell’esperienza e della testimonianza riporta in superficie brevi attimi di consapevolezza, lame di luce che ritagliano prospettive di senso su un fondale altrimenti opaco (“un’improvvisa risonanza / di luce nel morire delle cose”), forse indecifrabile per naturale sua essenza, ma permeabile alla parola, che è atto di rivolta silenzioso, strumento di conoscenza, “Forse perché cercare altrove / è come ricongiungersi, o morire”.
È sempre un’esperienza gratificante confrontarsi con una poesia, come quella di Floris, che non rinuncia al rigore, che sa tenere alta l’asta dello stile e della compostezza formale, senza rinunciare al bisogno di incidere sulla realtà, confrontarsi con la concretezza dell’esistenza individuale e collettiva, campo vivo della sua azione.
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