Sul primo numero della nuova rivista letteraria Menabò, edita da Terra d’Ulivi Edizioni, troverete una recensione a “Quinta Vez”, l’ultimo libro edito dalla poetessa Mariapia Quintavalla.

Riportiamo uno stralcio della nota di lettura.
Per chi fosse interessato alla lettura integrale, si rimanda alla rivista
Quinta Vez è un’opera complessa che sperimenta diversi generi letterari in ciascuna delle sezioni in cui il libro si articola e sarebbe riduttivo classificarla come silloge poetica tout court, per quanto sia la poesia la categoria letteraria a cui il lavoro stesso, per toni e temi, vada naturalmente ascritto. Già questa prima dichiarazione potrebbe apparire ai più un’evidente contraddizione, ma trova ragione nella visione secondo cui la poesia è soprattutto un sentire che si esplica mediante il ricorso a precise strutture ritmico-prosodiche associate a scarti conoscitivi e allegorici, tutti elementi che possono trovare ospitalità anche in generi letterari affini, quali la prosa o il teatro. L’autrice, ben consapevole della finta compartimentazione dei generi letterari, decide in questo lavoro di navigarli trasversalmente, puntando a un’esplorazione in profondità, che non è mai uno sprofondamento fine a se stesso, quanto piuttosto uno scandaglio della parola che va restituita alla sua possibilità immaginifica e creatrice. Poesia prima di tutto come capacità di violare confini artefatti, restituire lo spazio alla parola che con consapevolezza vuole riprenderne possesso, farsi e darsi senso. Quinta Vez è quindi una partitura ritmica in cui la poesia sceglie di prendere anche la forma della prosa e del dialogo teatrale per riscoprirsi e riconoscersi, ridarsi forma in insospettati esiti e smascheramenti, docili eversioni.
Non è quindi un viaggio semplice quello del lettore, che deve abbandonare ovvi pregiudizi e attese, per affidarsi a una nuova esegesi del dire poetico, aprirsi a un nuovo orizzonte della parola. E l’opera si apre con la prima sezione “Prenatale” che è prosa poetica che però sa mantenere controllatissimo il ritmo e la movenza della parola per lasciarne intatta la carica evocativa, perché lo spazio di azione della parola rimanga assoluto, ossia etimologicamente sciolto dalla zavorra del suo significato immediato. È lecito ritenere che molta sia l’autobiografia contenuta nei testi, ma questa viene ricombinata magmaticamente nella caldera letteraria spersonalizzandosi e dunque universalizzandosi, affinché ogni lettore possa fare propria questa materia, riplasmarla.
A parlare in Quinta Vez è sempre una voce femminile, China in una nelle sue multiformi varianti, una voce che oscilla in un binomio irrequieto di madre-figlia, fra annientamento e resurrezione o metamorfosi, in cui nascita e morte si compenetrano vicendevolmente perché solo nella loro simbiosi è consentito declinarne, se mai attingibile, un senso. Così il diventare madre è un percorso drammatico di crescita che non offre però redenzione, ma coscienza consapevole dello scacco.
Mai ti voltasti se non nell’attimo in cui baluginasti di me una donna, e divenute madri, mi chiamasti per nome. […]
Mi chiamasti, e ad un tuo cenno mi coprii intensamente: avevo freddo ma non fretta, di riaprire gli occhi: mi sapevo nuda, e forse tremavo nel pensiero dell’incontro.
L’indagine poetica intrapresa in Prenatale passa anche attraverso lo sfondamento dell’ordinario sistema spazio-temporale comunemente percepito (mediante ricomparse, riapparizioni, simil-resurrezioni) e diviene viaggio a mezzo fra il fantasmagorico e l’esistenziale in una ricerca inesaurita di senso (e anche la stessa metamorfosi di China ne è in tal senso immagine), là dove solo la parola poetica può esercitare un suo mordente.
Un fondo di allarme sibilo batteva sotto quel tempo, dove ogni fatto e idea, sentire era deforme per l’avidità del mondo. Dove non eravamo più state né ognuna, amen.
Dove invece Mariapia Quintavalla ritorna alla forma poesia più tradizionale, il verso in senso stretto, è una voce lirica che ritorna preponderante a campire la pagina in Mater e Mater II, ma l’io è solo osservatore esterno che prende atto del mutamento, della necessità della trasformazione dove l’essere si compie, come nel naturale percorso della crescita di una figlia che necessita di creare una propria dimensione, rinnovare il miracolo dell’esistenza. Ogni dettaglio della crescita viene accennato con grazia (come in quel titolo “Nata dal riso”), con compostezza formale, ma al contempo è in grado di rendere il lettore partecipe di questo cammino. Aleggia il desiderio di un tempo nuovo in cui ciascuno possa riscoprire lo spazio di un’umanità credibile, in cui la storia possa essere solo un incubo passato e rimosso perché le generazioni future possano ambire a nuove “radure”, prospettive accessibili. Ecco allora questa poesia che brilla di una sua particolare luce nella versificazione chiara, come l’annuncio di un’era nuova, un’adolescenza restituita alla possibilità di tradursi, ossia passare indenne attraverso le insopprimibili avversità del tempo, le sue tangenze cupe, l’orrore del secolo breve e infame.
Lei è più libera più umana, non conosce
guerre, né latitudini del nero
il novecento appena lo ha leccato ma dopo,
quanto venne valicato
nel suo tam tam sinuoso, si è raccolta.
Dorme o ticchetta i suoi messaggi, pensa
nella luce, e intanto in semicerchio
si accavalla ai corpi delle amiche
in cerchi di fumo e di parole
vola via leggera, si traduce.
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