Un pugno di segatura contro il nulla

Prefazione di “Zero al quoto” (puntoacapo, 2018)

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Un titolo, per i profani, quanto mai oscuro, Zero al quoto, espressione con cui in gergo matematico s’intende un’operazione che ha come resto zero e che trasferita dall’ambito suo proprio allude ad una ricerca di senso che approda allo zero, ossia al niente. Posta esponenzialmente a titolo dell’intera raccolta di Fabrizio Bregoli da un testo isolato ed eponimo della sua parte conclusiva, l’espressione si elegge a interpretante di tutto l’insieme (non a caso lo ritroviamo nell’ultimo testo, “ennesima potenza a base zero”) per definire l’approdo ad una consapevolezza, alla presa d’atto amara e insieme ironica di una verità.

In che consista tale verità a dirlo è proprio lo Zero: niente in assoluto, mancanza di consistenza e valore, privazione di essenza e legami, nella congiunzione significativa tra l’arabo sifr, “vuoto”, e i latini nec-ente, “neppure una cosa”, ne-hilum, “neppure un filo”.

C’è molta poesia dall’‘800 in poi, molta letteratura, ad autorizzare e suffragare la presenza di questo fantasma, il nichilismo, che può essere ritenuto, per definizione di Nietzsche, “il più inquietante di tutti gli ospiti” tra quanti possono bussare alle porte della nostra coscienza, e che, dall’ambito teoretico e ideologico, si presenta qui, aggiornato, nelle vesti di linguaggio freddo e asettico, che si pretende modello di universale comunicazione e comprensione, le più convenienti ad uno come Bregoli di solida formazione scientifica: negazione di rilevanza e spessore, dunque, di cose non meno che di persone, perdita progressiva di identità, in un processo di “assottigliamento”, di sfaldamento e polverizzazione di funzioni, all’ombra fintamente protettiva di una “linea esatta”, di una ratio (di una “filosofia perfettamente ragionevole”, come la definirebbe Leopardi), che pretende ancora di “reinventare” e ordinare il mondo, salvo abbandonarlo ad un irreversibile naufragio nell’”ignoto” (“Ci s’assottiglia, il garbo d’un asintoto / dove la curva stromba nel suo ignoto / a gradiente rapido, senza antidoto”, si ammette nel testo estremo della raccolta).

Come aggredito da un “tarlo” di dissoluzione (e “tarlo” è, non a caso, un altro interpretante che ritroviamo in apertura de I limoni del Garda, dell’ultima sezione), ossimoricamente l’io/tu si scopre così: esposto a un cliname inesorabile e inarrestabile di trasformazioni, che ne aggrediscono e sgretolano l’“impavida” corazza di sicurezze, e al tempo stesso attestato in pretese indifendibili, “senza fulcro che tiene”, a dispetto della sua essenziale e conclamata fede e volontà di resistenza attraverso l’arte e la scrittura (“e fa da morsa // qualche sdentata rima da arrembare / limar sonetti ad arte”), testimoniata dalla diffusa disseminazione di versi, eserghi e dediche (quasi a volerlo “fermare”, questo processo di dissoluzione, anche con un gesto insignificante, come “un pugno di segatura”, a citare un bel verso di Luigi Di Ruscio).

Il rischio è di “sfiatarsi”, di perdere la capacità di dar voce senza condizionamenti alla ricerca di una verità qualsivoglia, a un montaliano anello che non tiene, nella struttura opaca e indecifrabile del mondo, in cui l’io/tu continuamente si confonde e azzera, sempre sul punto di un “Fine Corsa”, senza neppure più il miraggio dell’amore “Nome e cenere, rosa di nessuno”, si dice amaramente in Educazione sentimentale, (1984-’91), che pure affiorava sotto la bianca e fredda coltre di neve del libro precedente.

Vincenzo Guarracino