Da “Il senso della neve” (puntoacapo, 2016)
La poesia non cambia nulla / è il nulla che la cambia. La fa possibile.
Da “Il senso della neve” (puntoacapo, 2016)
L’estate quando arriva, arriva!
Un testo di qualche anno fa…
da “Baedeker. Libro di viaggi” (2014)
Ostello degli inguaribili Scartocciò foglia a foglia quel granturco come fosse la pergamena attorta d’una profezia, lo macinò chicco a chicco fino ad estrarne indenne la preziosa filigrana, l’essenza a colma maturità di quel sole. Questa la sua sapienza, il catechismo paziente della terra per anni a fendere zolle, strappare loglio e gramigne, scrutare il […]
via PoEstate Silva #29: Fabrizio Bregoli, Da “Zero al quoto” — Poetarum Silva
Ti scrivo da un’assenza d’anni
da una lacca di nebbie, a fiato corto.
Da quest’arso ammarato relitto
nulla sembra mutare, il tempo sosta
tra consuetudine di luoghi, piogge
nascite ovvie, rare calamità.
Brandisco aria, trascorro ore a sommare
parole inutili a inutile vento.
Fibra a fibra, avvivo vene di vetro
alle guance avvizzite di chi resta
e scioglie ghiaccio rappreso alle palpebre
ne fa limpido specchio a chi verrà.
Questo ti lascio, un imbuto di giorni
levigato ad un’acqua di memorie:
stillane l’ultimo nettare, o cenere
una macchia disperata d’inchiostro.
Da “Cronache provvisorie” (VJ Edizioni, 2015)
Continua a leggere “Avvertenze per l’uso”
(Donor No. 34576148-2, TioNeoVek* Inc.)
Ho mani fragili, un grembo di pane.
Conosco il gergo stolto degli inverni
ne ho inscritto il silenzio sulle labbra,
la solitudine di tutte le porte
dove ho costretto l’esilio dei passi.
Qui si sconfina come a terra franca
la satira di un sole, o la sua surroga.
Ignoro chi accolgo, la vita
che mi diedero da crescere.
Mi parla un idioma losco, straniero.
Tento una voce. Le risponde il vuoto.
Tendo la mano. Ne raccolgo cenere.
Sono lo strappo, ripudio d’un dono.
Questo soltanto so offrirti, mentre ora
a me giungi oscuro e limpido. Fiore
ottuso, aporia del nulla.
(*) TioNeoVek: istituto per la maternità surrogata
Sia fatta grazia al filo d’erba, all’acqua
che limpida zampilla dalla rupe,
pietà al sonno del baco nella seta,
nel silenzio del solaio clemenza
ai miti scarafaggi della notte,
all’inquietudine dei giorni, al sordo
precipitare del buio alla terra,
s’assolva l’occhio ferino del nibbio
a piombo sull’orma cava del gregge,
sia dato asilo all’ultimo pulviscolo
di polvere strappata a densi cumuli
arsa nel nulla per forgiarne storia.
Perdono all’uomo che cancella l’uomo
cuore di vetro molato d’asfalto
che semina sul vuoto del suo grido,
grazia pietà clemenza asilo
se bandolo di voce appena resta
se cellula residua pulsa ancora.
Se penso alla misura del mio tempo
arretro alla stagione della scuola,
ai libri ravvivati dagli inserti
per fare sopportabile la storia,
a un quadro d’un maestro impronunciabile
– o solo una lacuna di memoria –
fiammingo testimone del progresso,
a un quadro sotterfugio di mercanti
tra monete compìti nella conta
del retto dare-avere calvinista.
Erede indegna alligna la finanza
un don Abbondio acrobata del dire
virtù della moderna stravaganza
dell’acciuffare banconote d’aria
senza il conforto d’oro che tintinna.
Se ancora ci ripenso, a dismisura
rimpiango gli esercizi di grammatica
delizia per l’infanzia alla graticola,
il semplice futuro di quegli anni,
allo smagato labbro l’ottativo
e l’aura socialista del supino
ribelle alla sua scorza di passivo,
il congiuntivo tremulo di fiato,
la prodigalità del partitivo
ed a stento si compita il dettato
d’un tempo scarno di superlativo,
d’un mondo declinato al genitivo.
Da “Cronache provvisorie” (VJ Edizioni, 2015)
Scruto dalla finestra
come dal più preciso dei cannocchiali
la finestra, identica, della casa di fronte,
i lampioni inclinati, l’asfalto lucido di pioggia,
lo scomposto accostarsi delle zolle
che si perdono nelle fessure della terra,
la calce fresca, la sabbia, i mattoni ammucchiati
e un ramo nel coacervo dei rami, quel ramo.
E sai che non è ramo quel ramo se non lo nomino
come non è parola la parola che pronuncio
ma è la distonia di ogni altra parola
se non la credi vera.
Per questo non so come affacciarmi sui giorni
stretti in questi nostri tempi di tumulti
nel dirupo dei tempi, tempi gravidi
di labbra di ghiaccio secco
di lingue tappezzate di chiodi
di trachee carbonizzate nella roccia.
La scacchiera è sgombra, si richiude sul legno
ma sospetto delle tende, dei vetri appannati,
delle pupille dilatate, della luce volubile.
Altri erano gli spazi su cui sporgersi
con le unghie linde, la saliva impaziente sui denti,
le pietre, gli steli da raccogliere.
Abbasso lenta la tapparella, sugli occhi,
e, con un battito di ciglia superstite, su questa carta
muovo le ultime armate inesistenti.
Da “Il senso della neve” (puntoacapo, 2016)
L’inverno è l’indugiare del pensiero
il perdersi nel vuoto delle stanze
fuggendo l’aria succube nel gelo
raccogliere le gocce della brina
stillarne fiato a pelo delle labbra
e reggere al tranello del già detto
all’esile lusinga del cantabile:
donzelletta passero assiolo, questa
bella d’erbe famiglia e d’animali
nonna Speranza e ogni caro poetico
vecchiume di lune e favole belle
il pio bove, i cipressi del Carducci.
Altro il timbro degno del nostro tempo
col pollice alle nocche un Vanni Fucci
che uncina, che flagella, che dà strazio
Pluto, Minòs ch’avvinghia alla sua coda
Flegiàs, Semiramìs lussurïosa
e serve una parola rattrappita
potata come un pesco di febbraio
quando sferza le guance tramontana.
Serve un torsolo minimo di voce
senza ravvedimenti, mediazione
stanar l’arpeggio nello sciabordio
delle stoviglie, frugare le pieghe
remote della polvere, scoprire
la chiave del durare in ciò che è breve
lo spazio dove resta illeso il bianco
allo svanire certo della neve.
Così accade che sul palmo tu veda l’impiccato
e t’affretti a disegnare l’ultima asta:
sai che ho smarrito tutte le lettere.
Da “Eresia del cuore” (Ilmiolibro, 2012)