Site icon La poesia di Fabrizio Bregoli

Da “Zero al quoto” (puntoacapo, 2018)

Podere carestia

Non si chiedeva il senso del vegliare,
lui guardiano di cosa poi
se era tutto disfacimento, i muri
una rovina di scorpioni ed edera.
Pure lo inebriava sostare immoto
tra quegli aratri, sfregarne residui
di spore e letame tra i polpastrelli,
sentirsi anche lui olla di quel destino
di terra e nuvole.

Non lo turbava l’insignificanza
di quel cerimoniale:
restare desto ogni notte, la nebbia
le calli dove scantona smarrita
qualche volpe esausta, ai tetti sconci
il raro guizzo d’un gatto selvatico
e il mattino sulla soglia il bicchiere
di latte tiepido, la ricompensa
di chissà quale mano
debitrice d’oblio, o di pietà.
Non lo inquietava assolvere
l’ambasciata a baluardo del nulla
sorbirlo stilla a stilla. Non diverso
sarebbe stato vivere.

I coniugi Arnolfini

(Jan Van Eyck – 1434)

Credilo giuramento quest’abiura
parola che consacra il suo delitto.
Resteranno pigmenti strati resine
di noi nulla durerà oltre quest’attimo.

E serba di noi la falsa promessa
delle mani, quel placido divergere
dello sguardo. O i piccoli vezzi languidi
la pelliccia, il cane. Serbali quando

biancheggia un brivido nella pupilla
scherno di non sai quale dio, e noi
chioma di luce che collima, o specchio

di un concavo deserto. È verità
della nostra vuota immagine, il suo
nobile plagio. E il quadro ne è misura.

Ritorno ad Onna

E quando sarà sazio questo letto
di sole e pietra, e l’erba crivellerà
di verde le macerie, chi sa se mai qualcuno
chiamerà ancora acqua questa menzogna
docile sulle labbra, e vento il vento.
Dagli alberghi che scagliano balconi
sull’incolpevole insulto del mare
– quel suo blaterare onde –
d’esilio in esilio, di notte in notte
ci condurranno nelle città nuove
compatte soluzioni abitative
a ricomposizione modulare,
una Gerusalemme asfalto e cupole
sul filo a piombo che staglia di luce
una geometria di piazze e nuvole,
quel legno che non dà nessun odore.
Ritroveremo quello stesso nome
il nume buono che fa scudo e casa,
la chiesa salda come una colomba
per farci riscoprire volto e fede
in quel raggiro di cielo, di strade.

L’amore al tempo dei Pòkemon

– Il segreto è trattenere, riavvolgere
in una bolla evanescente, un fiato
appena un po’ più lieve d’un rammarico –
poco più oltre stentava un fischio cupo
uno scompiglio tenero, d’estate.
Mi chiedi se sia amore tutto questo
o solo un suo resistere, svoltare
in controsterzo, moneta fuori corso.

A ogni bivio tocca scegliere un terzo
cunicolo di fuga, un lasco equivoco
per potervi detergere le mani.
O solo sfogliare qualche tarlato
almanacco, un album dei calciatori
magari quello raro, d’un mondiale,
raschiare il pulviscolo d’argento
da qualche fotogramma, Fritz Lang o Leni Riefensthal.

Di questo turbinare a scarna luce
rimane un solco abraso tra le righe,
una cartina muta da imbrogliare.
In sere come queste tutto svaga
o rimane fedele al suo mutare.
I volti si dissolvono nei volti
le mani nelle mani. Si consuma
un’alea di silenzio, un lieto fine.

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