Da “Zero al quoto” (puntoacapo, 2018)

Podere carestia

Non si chiedeva il senso del vegliare,
lui guardiano di cosa poi
se era tutto disfacimento, i muri
una rovina di scorpioni ed edera.
Pure lo inebriava sostare immoto
tra quegli aratri, sfregarne residui
di spore e letame tra i polpastrelli,
sentirsi anche lui olla di quel destino
di terra e nuvole.

Non lo turbava l’insignificanza
di quel cerimoniale:
restare desto ogni notte, la nebbia
le calli dove scantona smarrita
qualche volpe esausta, ai tetti sconci
il raro guizzo d’un gatto selvatico
e il mattino sulla soglia il bicchiere
di latte tiepido, la ricompensa
di chissà quale mano
debitrice d’oblio, o di pietà.
Non lo inquietava assolvere
l’ambasciata a baluardo del nulla
sorbirlo stilla a stilla. Non diverso
sarebbe stato vivere.

I coniugi Arnolfini

(Jan Van Eyck – 1434)

Credilo giuramento quest’abiura
parola che consacra il suo delitto.
Resteranno pigmenti strati resine
di noi nulla durerà oltre quest’attimo.

E serba di noi la falsa promessa
delle mani, quel placido divergere
dello sguardo. O i piccoli vezzi languidi
la pelliccia, il cane. Serbali quando

biancheggia un brivido nella pupilla
scherno di non sai quale dio, e noi
chioma di luce che collima, o specchio

di un concavo deserto. È verità
della nostra vuota immagine, il suo
nobile plagio. E il quadro ne è misura.

Ritorno ad Onna

E quando sarà sazio questo letto
di sole e pietra, e l’erba crivellerà
di verde le macerie, chi sa se mai qualcuno
chiamerà ancora acqua questa menzogna
docile sulle labbra, e vento il vento.
Dagli alberghi che scagliano balconi
sull’incolpevole insulto del mare
– quel suo blaterare onde –
d’esilio in esilio, di notte in notte
ci condurranno nelle città nuove
compatte soluzioni abitative
a ricomposizione modulare,
una Gerusalemme asfalto e cupole
sul filo a piombo che staglia di luce
una geometria di piazze e nuvole,
quel legno che non dà nessun odore.
Ritroveremo quello stesso nome
il nume buono che fa scudo e casa,
la chiesa salda come una colomba
per farci riscoprire volto e fede
in quel raggiro di cielo, di strade.

L’amore al tempo dei Pòkemon

– Il segreto è trattenere, riavvolgere
in una bolla evanescente, un fiato
appena un po’ più lieve d’un rammarico –
poco più oltre stentava un fischio cupo
uno scompiglio tenero, d’estate.
Mi chiedi se sia amore tutto questo
o solo un suo resistere, svoltare
in controsterzo, moneta fuori corso.

A ogni bivio tocca scegliere un terzo
cunicolo di fuga, un lasco equivoco
per potervi detergere le mani.
O solo sfogliare qualche tarlato
almanacco, un album dei calciatori
magari quello raro, d’un mondiale,
raschiare il pulviscolo d’argento
da qualche fotogramma, Fritz Lang o Leni Riefensthal.

Di questo turbinare a scarna luce
rimane un solco abraso tra le righe,
una cartina muta da imbrogliare.
In sere come queste tutto svaga
o rimane fedele al suo mutare.
I volti si dissolvono nei volti
le mani nelle mani. Si consuma
un’alea di silenzio, un lieto fine.

4 pensieri riguardo “Da “Zero al quoto” (puntoacapo, 2018)

  1. Ho avvertito , specie in “Podere carestia”, quasi l’eco di “Padania Inferiore” di Sanesi, salvo che per la scelta prevalentemente endecasillabica (che però se letta con il respiro lungo a quei ritmi riporta). Nelle altre l’endecasillabo è più “battente” (come uso dire a modo mio). Ma avevo già letto altri ottimi testi di questo libro che a questo punto devo possedere al più presto.

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