È sempre appagante leggere una nuova opera del poeta Mauro Macario. Pure nella sua assoluta coerenza e continuità sia nelle scelte contenutistiche sia nell’approccio stilistico, Macario riesce sempre, anche e soprattutto in questo lavoro, a risultare estremamente convincente e decisivo, ricorrendo a tutto quell’insieme di soluzioni formali e semantiche che lo contraddistinguono, senza doversi ripetere. Queste poesie nate nel corso dell’ultimo inverno, nell’arco di poche settimane, sono espressione di un’ispirazione artistica estremamente coesa e omogenea, nel rispetto di quei temi di rilevanza etica sia soggettiva sia collettiva che sono propri dell’autore. Macario riesce a unire con credibilità il tono comico e satirico a quello realistico o elegiaco – come nel ricordo struggente e mai patetico della perdita del figlio e degli amori trascorsi -, la riflessione interiore ed esistenziale con il paradosso e il grottesco, il bisogno di concretezza con l’ininterotta ambizione al sogno e all’ideale, duro a morire anche se bistrattato e rinnegato dalla nostra società consumistica e opportunistica. Macario non ammicca per cercare consenso o sedurre il lettore, è fedele solo all’impertinenza e all’obbligo dettati dal suo fare poesia. ll quadro che ne nasce è di una deliberata non omologazione alle convenzioni della contemporaneità e dell’ordine costituito, stante che ” Io scrivo senza censure / perché poesia e anarchia / sono gemelle in utero mundi ” dice Macario, conscio com’è della propria unicità sia come persona sia come artista o eroe quasi sfinito, nella sua ironica autodefinizione. E l’ironia infatti è la chiave di volta che regge la struttura portante di questa nuova prova poetica in cui, come dice l’autore, è impossibile scrivere ” l’ultimo capitolo “, mettere il punto, nella consapevolezza che è preferibile ” a un tardivo sentimento” sempre e comunque “un insulto postumo “.

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