Su Laboratori Poesia la recensione al nuovo libro di Giovanni Ibello
Scrivo nella recensione:
“La poesia di Giovanni Ibello colpisce subito per la potenza numinosa, il nitore spietato che si incide sulla pagina senza compromessi, per imprimersi con la sua forza tellurica, con la sua dizione netta. Al lettore si chiede lo sforzo di abbandonare ogni rassicurante àncora razionale, di abiurare a ogni volontà esplicativa o interpretativa: siamo di fronte a una parola che è autonoma, assoluta (nel significato etimologico e quindi più autentico del termine), una parola che sprofonda nel proprio abisso, in un “vantablack” (pag. 62) senza redenzione, “la prima musica dopo la fine” (pag. 62), da cui è però sua missione riemergere, estrarre barlumi di senso, esporsi disinibita agli occhi di chi vorrà accoglierla.
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“La poesia è un lunghissimo addio” (pag.13): è questo “il solo rito possibile” (pag. 19) e spetta al poeta officiarlo con il trauma interiore di esserne conscio, di esserne il solo titolato al suo scandaglio, con nuda consapevolezza. La parola poetica, pur essendo l’unica scelta possibile, la sola che può rappresentare qualche appiglio salvifico e chiarificante, è allora intrinsecamente contraddittoria: tanto più sembra svelare quanto più si allontana dalle cose, si fa altra rispetto al mondo, “perché ogni cosa si annuncia solo mentre si sfigura” (pag.25); da cui le ragioni di un “annuncio” che sembra sempre sul punto di volersi dare, ma non trova mai una forma compiuta, univocamente determinata: concetto, anche questo, ben evidenziato da Milo De Angelis nella prefazione, quando si parla di una verità sempre in procinto di accadere, luminosa e terribile insieme, verità di cui si è consapevoli, senza però poterla mai davvero afferrare.
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