È un libro senza compromessi questo ultimo lavoro di Gianni Ruscio, che sceglie di servirsi di un linguaggio netto, senza mediazioni. La parola si espone in presa diretta, pronta a incidere e sezionare la sua materia, senza inibizioni ma con sincerità estrema, anche a costo di risultare sgradevole o impudica. Il tema di fondo è la fragilità della nostra condizione di uomini, la volontà di riscatto rispetto a una precarietà di base dichiarata a chiare lettere, con lucidità e senza compiacimenti a un facile nichilismo:
a ricordarci che siamo
masse di niente che viene
dal niente niente tutto
pieno pieno tutto vuoto
straripante di sperma
straripante di mente.
Questo porta, nella prima parte del libro (la “prima mutazione”), a un’attenzione, anche parossistica, ai dettagli del corpo, alla disamina degli organi, con il ricorso prevalente alla metafora della macellazione e dello smembramento, anche in un’accezione misterica, rituale:
Eravamo il punto
di contatto superficiale
con le secrezioni i nervi i muscoli
che ferocemente e con bocca vorace
assalivamo nel ritardo accumulato
dell’esistenza. Esiste l’animale come
non esiste l’uomo
non esiste dio.
Il riconoscimento del limite biologico, costitutivo per l’uomo, è ribadito fin dal titolo: “mutazione” è innanzitutto termine scientifico che si riferisce alla trasformazione a cui è soggetto il patrimonio genetico di ogni specie vivente, alla sua alterazione imprevedibile, in un complesso insieme di modificazioni e ricombinazioni che riproducono la vita, la ripetono in una architettura di variazioni sempre inattese. Nella “prima mutazione” assistiamo dunque a una catabasi totalizzante fino all’annullamento di sé, nella constatazione della illusorietà di ogni certezza insita nella percezione dell’io come fattore identitario, come radice solida dell’esistente.
Da qui è possibile solo la risalita, la riemersione, la mutazione dallo stato amniotico all’esercizio del respiro. Ed è la nascita infatti il tema conduttore sotterraneo della silloge, come emerge con evidenza nella seconda parte del libro (la “seconda mutazione”): origine di una nuova vita e possibilità di rinascita per chi quella vita l’ha procreata, gli ha dato la possibilità di declinarsi, di uscire dall’oblio per entrare nel dominio della memoria. Figlio che diventa dono per ritrovare sé stessi, sottrarsi alla replicazione asettica e divorante dell’esistente, convertire il gioco della necessità nella riappropriazione di un centro stabile, aggregante.
Veniva e andava il tuo sorriso
quando a far giochi mi giravo
di schiena
e tu mi assalivi senza preavviso:
scalavi le mie spalle
piccola tentazione
e io ritrovavo le mie ali
perdute.
Spazio e tempo diventano così “ampiezza estetica”, coordinate nuove per riscoprire possibilità, un’alternativa a dimensione d’uomo. La scrittura di Gianni Ruscio è particolarmente densa, concentrata. Assistiamo a un uso molto rilevante della metafora, dell’analogia, della sineddoche, il che contribuisce a una poesia ricca di scarti laterali, varchi che chiedono un attraversamento profondo, un camminamento sempre al limite della caduta nell’abisso, senza potersi reggere a un comodo corrimano. Si rimane spiacevolmente storditi, a tratti privi di riferimenti rassicuranti, ma mai lasciati soli, sorretti da una parola che si offre come guida, “verbo del senso” a chi saprà intuirlo, farlo proprio.

Una selezione di testi è disponibile sul blog Poeti Oggi
https://www.poetioggi.com/2022/06/gianni-ruscio-mutazioni-terra-dulivi.html