Site icon La poesia di Fabrizio Bregoli

“Gallo Rosso” di Antonella Jacoli (Ladolfi, 2019)

Antonella Jacoli sceglie proprio l’archè eracliteo, questo logos vivo, come immaginario simbolico di riferimento – il gallo rosso del titolo di questo suo nuovo libro – rappresentato in primis come motore di rovina e distruzione (e insieme tuttavia palingenesi necessaria) a materializzazione di un ordine naturale sovvertito che trova nella guerra la sua forma più degenere e assurda. La poesia diventa allora l’arte di dominare questo fuoco, arginarlo nel confine – sempre precario, beninteso – della parola che è insieme denuncia e testimonianza, atto dovuto alla verità e quindi dialogo storico: non semplice recupero memoriale ma riscrittura di un tempo solo in apparenza passato e quindi cristallizzato nella sua immutabilità, ma in realtà materia concretissima e laboratorio vivo in cui trovare nuova accoglienza, come per i due protagonisti / autori (apocrifi, ma non per questo meno  autentici) di questi versi, Peter e Margot Beck, che cercano “la casa del loro senso”, come annota l’autrice. Indagare il vero storico (a voler recuperare il troppo spesso dimenticato dettame manzoniano) significa anche trasferire il proprio io in mani altre, così che il loro agire possa in realtà ridefinirlo, spogliarlo di ogni autoreferenzialità e farlo dunque riaffiorare scevro di ogni sovrastruttura, pronto a dire a chiare lettere che la cenere è la sola lealtà al fuoco, e così poter rappresentare più credibilmente il mondo.

[…]

La silloge procede per strappi, salti logici, accattivanti distonie. Infatti non viene seguito un coerente tracciato di tipo diacronico e neppure un punto di vista univoco, la visione anzi si sdoppia attraverso gli occhi dei due protagonisti che scrivono su piani paralleli – eppure incredibilmente intersecantisi – l’incrocio delle loro vite, alle quali assistono come da una prospettiva obliqua (o strabica?), alla ricerca di una comunanza di voce: “niente ha più senso / della tua voce viva”. Tuttavia il presente è camminamento in uno spazio allucinatorio (“da sonnambula ripeto il nome caro”), scabra litania (o balbettio isterico?) di oggetti (“le pelli di coniglio / i vestiti risvoltati / il dado per il brodo / i tessuti sintetici”) giustapposti nella loro contraddittorietà eppure dominati da un senso di oblio ineluttabile e d’insignificanza oppressiva, chiusi nel loro cerchio asfittico dal quale occorre estrarre un senso, liberare “parole deportate”, sapendo che “piove fin dentro le ossa”, perché “Stride ogni cosa / dopo la notte”. La parola ci chiede udienza, ambisce a una rinascita dalle sue ceneri:

Sradicati allineati corpi

fucilati prima delle labbra

tronchi e rami di guerra

fusi nell’ebano

a comporre il simulacro

di una strage marina

lo spoglio funebre

di un amore.

Dalla Prefazione alla silloge

Fabrizio Bregoli

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