Scruto dalla finestra
come dal più preciso dei cannocchiali
la finestra, identica, della casa di fronte,
i lampioni inclinati, l’asfalto lucido di pioggia,
lo scomposto accostarsi delle zolle
che si perdono nelle fessure della terra,
la calce fresca, la sabbia, i mattoni ammucchiati
e un ramo nel coacervo dei rami, quel ramo.
E sai che non è ramo quel ramo se non lo nomino
come non è parola la parola che pronuncio
ma è la distonia di ogni altra parola
se non la credi vera.
Per questo non so come affacciarmi sui giorni
stretti in questi nostri tempi di tumulti
nel dirupo dei tempi, tempi gravidi
di labbra di ghiaccio secco
di lingue tappezzate di chiodi
di trachee carbonizzate nella roccia.
La scacchiera è sgombra, si richiude sul legno
ma sospetto delle tende, dei vetri appannati,
delle pupille dilatate, della luce volubile.
Altri erano gli spazi su cui sporgersi
con le unghie linde, la saliva impaziente sui denti,
le pietre, gli steli da raccogliere.
Abbasso lenta la tapparella, sugli occhi,
e, con un battito di ciglia superstite, su questa carta
muovo le ultime armate inesistenti.
Da “Il senso della neve” (puntoacapo, 2016)